L’antroposofia, secondo precisa indicazione di Rudolf Steiner, non è argomento di insegnamento nelle scuole Waldorf. Tuttavia questo è un sito dedicato soprattutto ai genitori dei bambini e ragazzi che ospitiamo nelle classi. Abbiamo dunque ritenuto di fare cosa gradita pubblicando questo articolo di antroposofia, a cura di Antonella Zanti, Presidente dell’Associazione Anthropos di Reggio Emilia e fondatrice della nostra scuola. Antonella ci introduce, con parole accuratamente scelte, con una delicatezza rara e mai banale, in una meditazione molto profonda, preparatoria al Natale. 


L’autunno è la stagione di passaggio che ci conduce dall’estate all’inverno. Nell’equinozio c’è una situazione di sostanziale equilibrio tra le ore di luce e quelle di tenebra poi con l’avanzare della stagione le ore del giorno si riducono progressivamente fino a giungere, nella giornata del solstizio, alla notte più lunga dell’anno. Questo processo ci accompagna ad un entrare sempre di più in noi stessi, nella nostra interiorità, per compiere un percorso di risveglio interiore: l’addormentarsi della natura chiede all’uomo di attivare il proprio risveglio per evitare di soccombere alle forze di morte. L’uomo in quanto essere di natura tenderebbe a lasciarsi andare ai processi di morte, proprio come la natura muore intorno a lui. Invece gli viene richiesto, per esprimere la propria umanità, di sviluppare forze di veglia, di coscienza, di resurrezione interiore. Questa dinamica ha come prezzo lo svolgersi di una battaglia interiore, la lotta dell’uomo contro le forze della propria natura inferiore, animale, contro quelle forze che vorrebbero trascinarlo in una vita letargica, di sonno e di morte dell’anima.

La festa di San Michele all’inizio del periodo autunnale ci dice che, legandoci all’entità di Michele, possiamo confrontarci e vincere il male che in questa fase dell’anno ci attacca dalle profondità di noi stessi. Il mese di novembre si colloca al centro di questa lotta interiore e non a caso in questo momento dell’anno si festeggiano i morti. Dopo ottobre, mese dei raccolti ma anche dell’aratura e della semina, la terra entra in una condizione di sonno, di riposo. La vita vegetativa si raccoglie nelle radici e quello che appare è una condizione di morte della natura.

In questo tempo sospeso si incontra una soglia, o meglio la soglia si fa labile e permeabile: il mondo dei vivi e quello dei trapassati si avvicinano fino a sfiorarsi. In tutte le culture la notte tra ottobre e novembre è una notte speciale, una notte in cui è possibile entrare in una relazione con il mondo spirituale. Nel mondo celtico la notte di Halloween era una sorta di capodanno, un momento in cui si incontravano i morti e gli esseri spirituali.
(Naturalmente una festa del genere, portata in una cultura come la nostra in cui ogni festa è avulsa dalle proprie radici spirituali a favore di marketing e consumismo, appare come una sorta di sabba infernale, in cui vengono chiamate e risvegliate forze negative.)

La chiesa nel IX secolo ha posto nella giornata del 1 novembre la festa di Ognissanti, quasi come un esorcismo: gli esseri a cui legarsi in questa notte sono coloro che hanno fatto un cammino cristiano e solo dopo essersi legati ai santi è possibile incontrare i morti e gli esseri che si trovano immediatamente al di la della soglia.
Certamente per potere vivere e reggere l’incontro con i defunti è importantissimo conoscere e meditare il percorso del post-mortem, nella consapevolezza che se non si affronta il tema della morte superandone, almeno nei pensieri, la paura, non è possibile neppure affrontare degnamente la vita.

Vita e morte sono facce di una medesima medaglia, tratti di una grande lemniscata. La vita non inizia con la nascita e non termina con la morte, si trasforma e si metamorfosa sfuggendo alla nostra percezione sensoria per assumere altre condizioni, altri stati di coscienza.
Vita e morte sono polarità. Possiamo pensare la nascita come un processo di estrema concentrazione, da una grande periferia i nostri corpi sottili e il nostro Io si legano ad un corpo che ci viene offerto dai nostri genitori. La crescita, lo sviluppo, la vita stessa sono il compimento, la maturazione di questo processo di concentrazione. Come un seme contiene potenzialmente in sé tutta la pianta, ma ha bisogno di tempo perché la pianta cresca, analogamente possiamo pensare che la vita è un portare a maturazione un seme, un germe, che portiamo potenzialmente in noi e che si manifesta in questa vita ma che viene da lontano e che, dopo la morte, andrà lontano. Con la morte tutto ciò che si era concentrato si espande si dilata fino al punto da farci fare un’esperienza polare rispetto a quella terrena: mentre qui sulla terra noi ci percepiamo come un punto e il mondo fuori di noi è periferia, nel post-mortem noi diventiamo periferia e il mondo diventa punto. Ci espandiamo al di là delle stelle fisse fino a toccare un limite oltre il quale il nostro sguardo si dirige nuovamente verso la terra, avvertendo la nostalgia del ritorno.
Cosi come nella vita tocchiamo un limite al di là del quale la nostra organizzazione fisica e naturale non ci consente di imparare più nulla (quindi moriamo), così nel post-mortem la nostra espansione incontra il limite della mezzanotte cosmica, superato il quale, il nostro sguardo si rivolge nuovamente alla Terra.

Questo grande ritmo non ha un andamento circolare, non è una ripetizione dell’identico, ma ci sono cesure, passaggi importanti. Ritorniamo perché qua e solo qua ci viene data l’opportunità di compiere esperienze che ci permettono vita dopo vita, errore dopo errore, esperienza dopo esperienza di avvicinarci al grande archetipo umano, al Cristo. Solo qui, nell’incarnazione terrestre, ci è data la possibilità di conquistarci sul campo la nostra umanità, strappandola a forze che vorrebbero prendere possesso di questa stessa umanità per farne altro.
Il percorso del post-mortem è un grande, cosmico percorso di rielaborazione del vissuto, ma anche un rinnovato attingere alla fresca sorgente originaria del nostro essere più profondo. Così come al termine di ogni giornata avvertiamo la necessità di un sonno ristoratore per ritrovare forze rinnovate il giorno dopo, allo stesso modo la vita necessita ad un certo punto della cesura della morte, per rinascere con forze nuove.

I defunti ci parlano, le persone che in vita sono state legate a noi non ci lasciano ma ci seguono e ci accompagnano. Tuttavia se vogliamo incontrarli dobbiamo imparare a comprender il loro linguaggio, conoscere il loro percorso, lavorare affinché possiamo avvicinarci a loro. I morti hanno bisogno dei nostri pensieri e delle nostre preghiere. Il loro cammino, come del resto il nostro sulla terra, può essere difficile e insidioso. Noi possiamo leggere loro il Vangelo, possiamo leggere per loro conferenze di antroposofia per aiutarli a comprendere cosa stanno vivendo e ad orientarsi, per aiutarli a superare il senso di spaesamento che, ad esempio, sperimenta chi muore impreparato. Cercare di incontrali con amore e con rispetto, con nostalgia ma senza volerli trattenere e cercando di accompagnarli.
Questo richiede un grande lavoro interiore ma è anche, come tutte le prove, una grande occasione di crescita. Tessere un ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti è un compito dell’antroposofia, affinché quello che spazialmente e fisicamente si mostra come separato possa incontrarsi su un piano superiore.

C’è una vasta e ampia letteratura antroposofica che spiega dettagliatamente questi processi, dei quali ho voluto solo abbozzare un’immagine che può servire da spunto di meditazione. Certamente se si vuole creare un ponte, un legame sano con la dimensione dei defunti credo sia indispensabile partire da questa immagine della vita e della morte che ho cercato di tratteggiare.